Generale dalla Chiesa: morto per chi?

Il 3 settembre 1982 venivano uccisi il Prefetto e la sua seconda moglie Il ricordo dell’associazione NOmafieBiella

«Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro»: con queste parole lo scrittore cileno Luis Sepúlveda sottolineava lo stretto legame che esiste tra il passato, custodito dalla memoria, la comprensione del presente e la costruzione del futuro. In un mondo sempre più accelerato, con una memoria sempre più “a breve termine”, riscoprire questo principio risulta decisivo. Perdere la memoria vuol dire perdere la propria identità!

Per questo NOmafiebiella ritiene importante ritornare sulla vicenda dell’uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa avvenuta il 3 settembre del 1982, quarantadue anni fa. Lo faremo con due contribuiti.

Il primo analizzando alcune riflessioni emerse lo scorso 13 giugno in occasione della presentazione, su invito di NOmafiebiella, del libro “La legalità è un sentimento” fatta a Cascina Oremo dal professor Nando dalla Chiesa, figlio del Generale.

Il secondo cercando di capire a chi serviva questa uccisione.

L’IMPORTANZA DELLA MEMORIA

Il contrasto alla mafia è un fattore culturale. «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale» diceva Paolo Borsellino, o, meglio ancora, è anche un fattore educativo. In effetti il dibattito sulla legalità s’intreccia con i temi connessi alla povertà educativa. Per molti la povertà educativa è da imputare all’analfabetismo. È tuttavia un’interpretazione riduttiva: la povertà educativa non si limita solo a questo, ma investe la mancanza di opportunità educative a tutto campo: da quelle collegate alla fruizione di opportunità culturali e educative (biblioteca, cinema, teatro, musica…), fino al diritto al gioco e alle attività sportive.

Nella povertà educativa vanno inclusi anche coloro che non si occupano di quello che succede intorno a loro, convinti che la cosa non li riguarda. Che non si pongono il problema dell’esempio che danno ai propri figli, che non leggono un libro in un anno.

A volte pensiamo che la soluzione dei problemi che ci accadono possa essere affidata alle norme, ma questo significa pensare che norme e leggi sono in grado di prevedere tutto, mentre una grandissima parte di quello che facciamo non passa attraverso il controllo delle leggi e delle norme. Rimane affidato alla nostra sensibilità, alla nostra coscienza. A quello che possiamo definire un modo di vivere. Questo il messaggio che ci ha voluto comunicare Nando dalla Chiesa.

Ad esempio il nostro sistema legislativo non ha previsto reati ambientali per decenni. Il nostro modo di vivere invece ci ha portato a contatto con i valori dell’ambiente «ed è cresciuta nella comunità una sensibilità ed una attenzione nei confronti di un pianeta che ha le risorse finite. Questa consapevolezza investe noi ma soprattutto le nuove generazioni. Noi dovremmo insegnare ai ragazzi l’attenzione a questo tema» ed invece, afferma Nando dalla Chiesa, «rimango allibito nel vedere che c’è un problema di generazione dove molti genitori esprimono e coltivano questa povertà educativa. Hanno studiato e siccome hanno avuto la fortuna di studiare, pensano di sapere tutto. E quindi di poter insegnare agli insegnanti senza preoccuparsi del fatto che ogni cosa che dicono contro gli insegnanti nei loro figli produce un vulnus nei confronti del valore della cultura per l’insegnante, dei valori dello Stato che è l’insegnante». Al concetto del “rispetto” non pensano proprio.

Quando parliamo di povertà educativa si semplifica il problema sentenziando che è così perché “non hanno potuto studiare”. Da lì l’equazione che la mafia sarebbe stata sconfitta nel momento in cui il tasso di alfabetismo fosse salito. Se la gente studierà, si ribellerà. Non è così.

Povertà educativa non significa solo “non essere andato a scuola”. Questo termine include anche altri aspetti: lo scarso senso delle istituzioni, la sfiducia nella giustizia, il disinteresse nei confronti degli altri, la scarsa attenzione per l’ambiente e il poco rispetto per le nuove generazioni. Infine il professor Dalla Chiesa ci ha ricordato che la povertà educativa ha a che fare con il tema della memoria.

«Una cosa mi colpisce. Vedo che le famiglie italiane verso gli anziani hanno un incubo: l’Alzheimer. E appena si perde qualcosa della propria memoria, incominci a pensare che vali di meno. E quando si vede il proprio genitore che non ricorda più, lo si tratta come un poveretto che ha bisogno di assistenza. Ma questo lo si fa per i singoli, per le persone, ma non lo si fa per le società. Ma se le persone senza memoria sono allo sbando, come saranno le società senza memoria?».

MORTE DI UN PREFETTO:
UN FAVORE A CHI?

E proprio il tema della memoria ci spinge a riflettere oggi, 3 settembre 2024, sull’uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

«… io che sono certamente il depositario più informato di tutte le vicende di un passato non lontano, mi trovo ad essere richiesto di un compito davvero improbo e anche pericoloso», così scriveva la sera del 30 aprile 1982 il generale dei carabinieri. Parole affidate al suo diario, una sorta di immaginaria lettera alla moglie Dora morta da quattro anni.

Da poche ore era stato trasferito a Palermo, nel nuovo incarico di Prefetto della città; era la risposta dello Stato alla tracotanza mafiosa.

Cosa nostra, quella mattina, lo accolse uccidendo il deputato comunista e segretario regionale del Pci Pio La Torre, insieme all’autista Rosario Di Salvo.

I successivi tre mesi furono la cronaca di un’estate segnata da continui delitti di mafia eseguiti con ostentata ferocia “in faccia” al nuovo Prefetto.

Un omicidio ogni 72 ore a giugno, un omicidio ogni 48 ore a luglio, un omicidio ogni 12 ore ai primi di agosto.

Nella sola campagna di vicina a Bagheria, i morti ammazzati sono quattordici in una sola settimana. Il Prefetto ordina ai battaglioni mobili dei carabinieri di presidiare i paesi sotto assedio, posti di blocco, perquisizioni, armi sequestrate, impronte digitali controllate, guanti di paraffina, interrogatori, fermi. I killer non si trovano mai.

Le prime pagine del giornale L’Ora sono ormai fotocopie con numeri al posto dei titoli: 81… 84… 87… L’11 agosto sono già 93, il 14 sono 95. A fine mese l’inchiostro rosso si spande sulla foto dell’ultima vittima. Il titolo che va in stampa dice 100.

E non mancano le rivendicazioni in stile terroristico, tanto per far capire di avere raccolto la sfida: «Siamo i killer del triangolo della morte. L’operazione da noi chiamata “Carlo Alberto” con l’operazione di stamani l’abbiamo quasi conclusa», disse una voce anonima al centralino del quotidiano L’Ora segnalando un duplice omicidio il pomeriggio del 10 agosto.

Nemmeno un mese più tardi, la sera del 3 settembre ’82, Carlo Alberto dalla Chiesa salì sulla A112 guidata dalla giovane seconda moglie, Emanuela Setti Carraro, e insieme uscirono dalla prefettura, nel centro di Palermo. Quello che accadde in via Isidoro Carini, lo raccontò - intercettato in carcere nel 2013 - Totò Riina in persona: «La possibilità… ce l’abbiamo avuta noialtri… sta uscendo, deve uscire, deve andare a mangiare… e va bene… ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta…», disse simulando una sventagliata di mitra.

A dire il vero, Cosa nostra aveva ben poco da temere dal generale-Prefetto inviato a Palermo senza poteri, mentre ha avuto tanto da perdere uccidendolo: una settimana dopo, il Parlamento approva il nuovo reato di associazione mafiosa, nonché la confisca dei beni ai boss, che Pio la Torre aveva proposto da oltre due anni.

Allora perché venne organizzata ed eseguita la strage di via Carini?

È una domanda rimbalzata fra gli stessi mafiosi, che non hanno trovato risposte ma solo il rammarico per un delitto controproducente, probabilmente richiesto o sollecitato da altri.

C’era il delirio di onnipotenza di Riina, d’accordo, confessato da lui stesso nelle intercettazioni in carcere: «Il generale dalla Chiesa promosso nuovo prefetto di Palermo… Prepariamoci, gli ho detto... il benvenuto gli dobbiamo dare… Lui sembrava che veniva a trovare qua i terroristi, gli ho detto “qua il culo glielo facciamo a cappello di prete”…».

Ma non era sufficiente.

«Quest’omicidio dalla Chiesa non ci voleva, ci consumò, ci vorranno minimo dieci anni per riprendere bene la barca, la situazione», confidò Pino Greco Scarpuzzedda, uno dei killer, al futuro pentito Tullio Cannella che l’ha raccontato nel 1996.

E ancora più tardi, nell’aprile 2001, il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro fu registrato mentre diceva a un altro mafioso: «Ma tu partici dall’Ottantadue… ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a dalla Chiesa… andiamo, parliamo chiaro… Insomma viene questo qua che non ha nessun potere… E perché glielo dovevamo fare qua questo favore? … Chi è che glielo ha dovuto fare… chi glielo ha fatto? … Questo spingere determinate esasperazioni… per farci mettere nel tritacarne».

Un favore fatto a qualcuno (chi?), sul quale fior di “uomini d’onore” continuano ad interrogarsi a distanza di anni.

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