Parole - Mihajlović, la dignità dell'uomo paziente

L’eco della scomparsa di Siniša Mihajlović è forte e violenta, proprio come una delle proverbiali punizioni da calciatore del serbo. I social, prima che la tivù e i giornali, sono diventati davvero, in queste ore, la bacheca di tutti dove pubblicare una foto, una parola, un ricordo. Tutto per Miha, perché morire a 53 anni è troppo presto, da famosi o sconosciuti. Della battaglia del serbo contro la leucemia, che come una partita sembrava vinta nell’acceso primo tempo, in controllo all’inizio del secondo, prima del drammatico ribaltone finale, restano dei messaggi, suoi, che la notorietà del personaggio ha aiutato a veicolare. Perché è vero che di storie così, con la malattia che ti vola addosso, purtroppo ce ne sono tante, ma restano il più delle volte sofferenza individuale o familiare e dolore, tanto dolore. È stato lo stesso Mihajlović a ricordarlo all’inizio del calvario senza piangersi addosso, senza farsi vittima e cominciando a lottare come spesso faceva sul campo da calciatore, eccellente, e come spesso spronava a fare ai suoi di calciatori da allenatore, buono. No, Mihajlović non è stato un eroe, semmai è stato un duro, ma a quello a chi è appassionato di calcio già aveva abituato sui campi di mezza Europa. Non aveva bisogno della leucemia per gridarlo. Il serbo nella malattia, che ha provato a trattare con il coraggio e la testa mai china allo stesso modo di come affrontava, a volte al limite dell’arroganza, gli avversari, ha detto alla sua famiglia, ai suoi tifosi, ai suoi ammiratori, ai tanti ammalati di essere un uomo. Come lo sono tanti colpiti da subdole malattie, in silenzio, con un lavoro normale e una vita normale. Lo ha fatto con carattere, il suo, di un uomo mai domo, eccezionalmente forte. Lo ha insegnato quando ha chiesto normalità e non pietà o pena e neppure compassione, quando ha sorriso e quando ha pianto, quando ha lottato credendo di vincere e lottato ancor di più pur sapendo di perdere. Mihajlović per me resta quello che due anni fa di fronte ad un possibile premio come miglior allenatore disse che semmai lo avrebbe voluto per meriti sulla panchina e non perché malato. Diede dignità ulteriore al suo stato di paziente. Che voleva sostegno sì, cure sicuramente, ma imprescindibilmente rispetto. Perché di mancanza di rispetto si sarebbe trattato. E perché chi affronta una malattia difficile ha bisogno di continuare ad essere trattato prima di tutto come una persona normale, senza vergogna e senza vergognarsi, e soprattutto non diversa dalle altre. Che lotta spesso in silenzio, quasi mai davanti alle telecamere, come successo a lui, e a volte anche in solitudine. Aveva voluto dire che serviva la comprensione, non una compassione di default che avrebbe aggiunto alla malattia solo una punizione. Ma non di quelle belle al fulmicotone, impressionanti, a cui aveva abituato lui, Siniša Mihajlović.

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