Ue ed Ecodesign, si salvi chi può. Intervista a Ercole Botto Poala
In Europa finiscono in discarica 5 milioni di tonnellate di abiti (12 chilogrammi a persona) e solo l’1 per cento dei materiali viene poi riciclato per creare nuovi indumenti; in Italia si arriva a 154mila tonnellate. Siamo insostenibili. L’Unione Europea ha deciso di dare l’altolà alla moda. Ma è la sostanza dell’altolà a inquietare gli imprenditori, quelli tessili in particolare. La scorsa settimana a Bruxelles è stato approvato il regolamento Espr (Ecodesign for Sustainable Products Regulation) che, dopo la votazione del Parlamento europeo e del Consiglio, dovrebbe essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale entro fine anno. «Sicuramente l’Europa sta accelerando sulle regole, ma, come sempre abbiamo sostenuto, se prima si giocava una partita senza arbitro ora l’arbitro sta scendendo in campo» commenta Ercole Botto Poala, ad di Reda e presidente di Confindustria Moda.
«Sul come saranno definite queste regole c’è da riflettere. Si tratta evidentemente di una sintesi dei desideri fra Paesi del Sud che producono e Paesi del Nord che importano e distribuiscono. Quindi è inutile sperare che il gioco sia a nostro favore. E questo va purtroppo imputato alla nostra poca capacità di fare lobby. Quelle regole un po’ le subiremo e, soprattutto, non è ancora chiaro se varranno per tutti. E’ un bene che si impongano condotte su come produrre e comprare ma non avrebbe senso se venissero applicate solo ai nostri prodotti e non a quelli in entrata». L’esempio più lampante e fallimentare rimanda al regolamento Reach adottato per migliorare la protezione della salute e dell’ambiente dai rischi che possono derivare dall’uso delle materie chimiche. «Noi produciamo correttamente e pulito, all’estero ci chiedono di essere trasparenti e pertinenti mentre importiamo prodotti a basso costo e senza regole. Il risultato ha contribuito a gene- rare quei 5 milioni di tonnellate di rifiuti tessili» prosegue l’imprenditore biellese. L’Italia è un passo avanti sul fronte della raccolta degli scarti tessili: ha infatti anticipato al 2025 l’obbligo fissato dall’Ue, ma Bruxelles sarà in grado di uniformare i Paesi membri a pari condizioni? Tra i capisaldi del provvedimento Espr ci sarà poi il divieto di distruggere l’invenduto, il tema della responsabilità estesa del produttore che dovrà farsi carico dell’intero ciclo di vita dei prodotti e il passaporto digitale.
«In realtà la stragrande maggioranza delle imprese di Confindustria moda non è ancora pronta al Dpp. Per molte di loro il percorso di digitalizzazione del processo non è nemmeno iniziato. Si tratta di un costo enorme e di un impegno molto articolato. Sappiamo che verrà dato più tempo alle aziende più piccole, ma questo cambiamento non sarà banale» aggiunge Botto Poala.
Le certificazioni, per esempio, varranno sempre meno se non per un fattore etico intrinseco, anche se è vero che chi ha già affrontato questi percorsi ha una predisposizione migliore a rispondere ai criteri di misurazione e a evadere le informazioni richieste. «Confindustria ha da tempo sollecitato gli associati su questi temi, chi ha sottovalutato la questione farà più fatica. E il tempo a disposizione non è molto».
All’industria della moda si impone dunque e con urgenza di ragionare per sostenibilità, circolarità, durabilità, riutilizzabilità, riparabilità, facilità di manutenzione.
«Il problema di cosa è sostenibile e cosa no, avrà un impatto su tutte aziende anche quelle più preparate. Dovremo progettare tessuti in maniera diversa rispetto al passato. Probabilmente non sarà più consentito l’uso di mischie in fibre diverse. Cultura e ricerca tessile hanno sempre lavorato su questi aspetti dando così valore ai prodotti. Ora si dovrà cambiare. Ma l’Europa capirà la differenza d’impatto fra fibre naturali e sintetiche? Ognuna ha origine, percorso, fine vita e durabilità diversa. Anche qui la sostenibilità si scontrerà con il basso costo. L’innovazione dovrà percorrere nuove strade. Biella è sposata alla lana e se il futuro impone il riciclo dovremo trovare nuovi riutilizzi che distribuiscano la materia prima-seconda su un mercato capace di farne uso. Saranno necessari sbocchi in altri e nuovi settori» dice Botto Poala, che conclude: «Un abito di marca raramente finisce nell’immondizia. Lo si adatta, si ripara, si indossa nel tempo perché è di qualità. E’ chiaro che un capo a basso costo non si aggiusta e a fine vita si butta in discarica. Non si possono quindi immaginare regole uguali per un cappotto di marca e una t-shirt fast fashion, o equiparare filiere facili al riciclo e altre più virtuose come la nostra. Il Biellese lavora con le fibre naturali, materie prime che hanno costi elevati e di cui abbiamo da sempre saputo fare tesoro, partendo dalla lanolina nelle fasi di lavaggio fino agli scarti di produzione. Siamo un passo avanti: non sciupiamo, siamo campioni nel riuso e siamo abituati a non sprecare».
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