Il dialogo di Cecilia Martin Birsa
con la pietra racconta la maternità
Sarà inaugurata oggi la personale della scultrice biellese, ultima allieva di Placido Castaldi. Spiega: «Ho immaginato l’attitudine armoniosa a prendersi cura di sé e degli altri»
Oggi,nella Giornata internazionale della donna, verrà inaugurata allo Spazio Cultura della Fondazione CRB una personale della scultrice biellese Cecilia Martin Birsa, artista di successo allieva di Placido Castaldi, incentrata sul tema della maternità. Realizzate negli ultimi 10 anni le 14 opere in mostra raffigurano corpi e volti femminili scolpiti nelle antichissime pietre della Valle Elvo che sotto il sensibile occhio dell’artista prendono vita esprimendo, attraverso la rappresentazione della carne, introspezione, coraggio, dolore e l’armonia racchiusa nell’imperfezione, senza rinunciare al contempo a raccontare la grandiosità della materia prima, della sua origine e storia nel mondo.
A completare l’esposizione, visitabile fino al 14 aprile, la raffigurazione delle fasi del lavoro dell’artista, dalla raccolta delle pietre alla lavorazione, una tecnica unica che è valsa alla scultrice il Copyright nel 2018. In questa intervista Cecilia Martin Birsa racconta i processi creativi che hanno guidato la realizzazione di questa mostra “in rosa” che racchiude, in realtà, un universo di colori, a partire da quelli della Terra.
Che concezione della maternità ha guidato la realizzazione delle opere?
La maternità è una concezione ampia: è la capacità di prendersi cura dell’altro e, prima di tutto, di se stessi. Non l’ho intesa come maternità biologica, piuttosto come l’insieme di stati d’animo sinceri, espressi in maniera quanto più armoniosa, inglobando anche i difetti della carne, come possono essere le cicatrici, le rotondità di troppo secondo l’estetica corrente, sempre rappresentati con amore perché ogni imperfezione è una bellezza incredibile.
Se il corpo è il mezzo attraverso il quale si esprime l’anima, che aspetti dell’interiorità queste sculture vogliono raccontare?
Le mie sculture vogliono esprimere gli stati d’animo femminili attraverso un occhio impietoso. Io non ho creato opere belle dal punto di vista dell’ammiccamento verso quello che gli altri vogliono. È un dialogo impietoso nel senso che ho fatto vedere i miei stati d’animo per quelli che sono o quelli che ho colto negli altri, esprimendoli tutti, anche i più intimi, con un abbraccio. Secondo me è questa la vera bellezza.
Sembra quasi ci sia un contrasto, però, tra la durezza e la freddezza della pietra e la tematica scelta, così dolce, tenera, emblema della forma più pura dell’amore.
Trovo che la pietra sia effettivamente un materiale durissimo da lavorare, però al tatto e alla vista è come fosse morbido perché le pietre che arrivano dal torrente sono state levigate nel corso di migliaia di anni, richiamando, così, le forme femminili. Il fatto, poi, che arrivino da epoche antichissime, mi ha permesso di ricollegarle anche al concetto di Madre Terra.
Queste caratteristiche della materia prima possono essere intese come un aspetto metaforico della forza e della resilienza delle donne e delle madri?
Sì certamente. Le donne hanno portato sulle loro spalle il mondo da secoli. Conosco i racconti di Bagneri dove le donne portavano sulle spalle, nella gerla, le pietre che gli uomini utilizzavano per costruire la chiesa. Da noi in montagna, inoltre, gli uomini potevano avere il giorno di riposo, le donne mai.
Le venature delle pietre e le apparenti imperfezioni celebrano anche il corpo da sempre oggetto di improprie controversie.
Esatto: le donne devono aderire al cosiddetto “fisico perfetto”. Avverto tutto questo come una violenza: il solo fatto che uno debba dire ad un altro come deve essere fisicamente, è inaccettabile, il corpo è la casa dell’anima e la mamma è la casa, per la capacità di sapersi prendere cura degli altri.
In una precedente intervista, oltretutto, aveva detto che queste pietre, sono “imprevedibili nelle inclusioni” e che “rivelano un universo di colori”.
È vero, il risultato è sempre un profondo dialogo con la pietra. Può capitare, ad esempio, che io abbia in mente di realizzare una scultura in un certo modo ma che la pietra non ne voglia sapere. Tutti gli esempi che sono in mostra derivano da questo dialogo. È un grande arricchimento: la materia è più sapiente e più antica di me perciò quello che esce per me è sempre più liberatorio di come sarebbe stato se fosse stato solamente il frutto della mia espressione come artista. La pietra obbliga anche ad essere molto scarni con i dettagli, proprio per questo riesco a far uscire gli stati d’animo all’osso, semplici e profondi.
Le porgo una piccola provocazione inerente alle vicende dell’attualità: in un periodo in cui si rivendica il concetto di donna slegato dal concetto di maternità, qual è il messaggio che vuole lasciare ai visitatori proprio in occasione della festa della donna?
Che la maternità è uno stato d’animo prezioso che tutti, sia uomini che donne, devono avere dentro di sé. La donna, è chiaro, è un essere umano come gli uomini, non migliore, non peggiore, però complesso come loro, al quale non si può chiedere di ridursi ad essere umano più semplice di quello che è. Rabbrividisco leggendo certi fatti di cronaca e le reazioni di certe donne. Trovo che il titolo stesso della mia mostra sia provocatorio, noi siamo più di così e gli uomini hanno bisogno di sentire dentro di loro questo archetipo della maternità, perché noi donne, da sole, non possiamo rivendicare i nostri diritti, abbiamo bisogno di uomini che comprendano profondamente che la nostra libertà è anche un loro bisogno, un bisogno di riappropriarsi di quella parte sensibile di cui magari hanno paura.
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