Economia & Società / Biella
Domenica 20 Ottobre 2024
Botto Poala: «Misurarsi con i numeri per fare meglio»
Reda ha ottenuto la sua prima certificazione nel 2004
Il percorso era iniziato nel 2002, «era giurassica della sostenibilità» come la definisce Ercole Botto Poala, ceo di Reda. E nel 2004 era arrivata la prima certificazione. «Dopo un viaggio in Cina ci rendemmo conto che il mondo avrebbe avuto, negli anni a venire, molti più “abitanti” alla ricerca di una qualità di vita e di un benessere maggiore, una condizione auspicabile ma che avrebbe inevitabilmente portato a più spreco».
L’obiettivo di Reda, un ventennio fa, fu quello di diventare sostenibile per essere più competitiva. «Migliorando e misurando le nostre performance» prosegue l’imprenditore. «Anche se all’epoca non c’era interesse su questo tema e tanto meno era visto come un’opportunità, noi eravamo convinti che potesse tornarci utile anche per dare all’azienda un’immagine più attenta ed efficiente, che fosse gradita ai clienti e capace di attrarre giovani interessati a lavorare con un certo approccio filosofico».
Nell’occhio del ciclone, agli inizi del terzo millennio, c’era soprattutto la chimica. «Siamo partiti di lì e abbiamo imparato molto dall’errore. Venne avviato uno studio di due anni, girando il mondo e compiendo ricerche su come passare dall’utilizzo di coloranti sintetici a quelli naturali, per capire, alla fine, che se avessimo usato solo quelli avremmo dovuto, per esempio, accaparrarci il 30 percento della produzione totale sul pianeta dell’indaco per il blu, o di una particolare corteccia di una pianta che cresce nella foresta amazzonica, per il nero. In altre parole una qualsiasi azione in questo senso avrebbe avuto conseguenze altrettanto insostenibili e generato un impatto non totalmente positivo. Da qui abbiamo deciso di concentrarci nella riduzione degli sprechi di tutto quello che utilizziamo nel nostro processo: acqua, energia e risorse in genere».
Il fatto di essere antesignani della sostenibilità ha portato Reda a misurarsi, a ottenere certificazioni che inquadrassero con numeri concreti ogni azione, numeri da confrontare, da superare, per avere la certezza di essere sulla strada giusta.
«Un concetto che volevamo trasferire a tutta la filiera, dalle fattorie in Nuova Zelanda ai fornitori, dai dipendenti al territorio. La certificazione B-Corp ci impegna a rispettare determinati standard per garantire un impatto positivo nella produzione, sulla società e sull’ambiente, conciliando economia e profitto con etica, sostenibilità e benessere».
Ma lo spreco resta uno scoglio, «il problema» che non può combatte solo l’azienda. I consumatori e, in particolare i giovani, sono davvero interessati alla sostenibilità? Cosa dicono i numeri? «Le ricerche dimostrano che i giovani, malgrado tutto, non sono poi così attenti. Sono più informati, più predisposti in certe aree di mercato ma dove il benessere è arrivato da poco ci sono altre priorità. E quindi molto spreco. Ciò significa che avremo presto tensioni sulle materie prime e che, se non cambieremo modo di interagire, ci saranno scarti pazzeschi».
In questi equilibri precari si innestano poi le direttive europee al 2035. «Un tema complicato. C’è molta confusione e troppo poca consapevolezza. Le regole che si scrivono a Bruxelles poco hanno a che vedere con le dinamiche di territorio. Gli “autori” sono gli stessi che qualche anno fa celebravano la moda democratica del fast fashion e oggi, visti gli effetti, la demonizzano, dimostrando che se non si analizzano con attenzione le conseguenze si rischia di avere più danni che benefici. E’ bene ricordare che il fast fashion è fondamentale per la filiera del tessile, e non solo italiana, in quanto dà lavoro per esempio al Biellese nel 15/20 percento della sua produzione, nel Pratese si arriva al 60/70 e nel Comasco al 20/30 percento. E’ giusto e nobile essere attenti a ciò che è vicino all’azienda e al territorio, ma occorre avere una politica forte dove si decide il destino del nostro manifatturiero che determinerà la nostra competitività e sopravvivenza. Questa differenza le pmi ancora non l’hanno colta appieno. E questo fatto è un freno pericoloso per il nostro futuro» conclude Ercole Botto Poala.
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