Ci sono lezioni, la maggior parte, dove l’insegnante sta alla cattedra. L’altro ieri non c’era una cattedra e neppure un insegnante, ma in scena è andata una lezione di vita o meglio un trattato semplice sulla sofferenza. Curioso, certo, che tutto sia arrivato dal palco del teatro Ariston di Sanremo e da un Festival che sempre di più, al di là della musica, si è fatto notare per le stravaganze degli ospiti, gli abiti impossibili dei cantanti e in alcuni casi pure per la volgarità di gesti.
Il monologo del Maestro Giovanni Allevi, però, sentito e risentito è un atto di forza e di coraggio racchiuso nei confini di un pensiero che scavalca prepotentemente il recinto drammatico della malattia. Quel «ho perso tutto, ma non la speranza e la voglia di immaginare» può essere il manifesto di una condizione umana certo aggrappata al destino, ma allo stesso modo il credo fortissimo di una voglia di provare sempre a guardare oltre. E a raccogliere qualcosa anche da quel terreno che sembra arido pure per la medicina e la scienza, figuriamoci per i sogni. Eppure la malattia al Maestro affermato ha fatto scoprire la «bellezza del creato, la gratitudine, la riconoscenza» e un «infinito, un irripetibile e un unico» di ognuno di noi che è l’arma contro la sofferenza e la carezza alla vita. «Sono quel che sono» e l’accettazione del nuovo se stesso, malato, che vede oltre il giudizio esterno è stata la chiosa filosofica di un racconto forte. Perché tutto alla fine diventa relativo e non assoluto. Certo qualcuno dirà che storie di questo tipo, di gente che combatte, ce ne sono tante, senza finire sotto i riflettori. Vero, ma in qualche modo sentirle così piano-forte, come lo strumento preferito del Maestro, sono un antidoto alla resa di malati e di chi ai malati sta vicino. Perché «non potendo contare sul mio corpo suonerò con tutta l‘anima» è qualcosa che l’altro ieri avrebbe dovuto farci essere tutti Allevi. O, almeno per una sera, allievi. Ad una lezione di sofferenza e di vita.
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