Non avevamo ancora finito di abbracciare i genitori di Erika, pugnalati una seconda volta, che la cronaca impone un nuovo pesantissimo e macabro dazio con l’ennesimo femminicidio. Questa volta è Giulia la vittima che non è riuscita a sfuggire ad un assassino e a qualcosa impossibile da chiamare amore.
Delle parole bisogna conoscerne il significato, ma soprattutto l’interpretazione. E allora ciò che si deve fare è sgomberare il campo che qualunque cosa iniziata sotto il verbo amare possa avere una conclusione come quella delle vite di Erika e Giulia. Perché l’amore, con la a maiuscola o minuscola, inizia, prosegue, dura, anche una vita, cambia, si modifica, cresce, affievolisce, finisce: sì, può finire e magari anche senza il calumet della pace perché le ferite del cuore e dell’anima segnano e a volte inaridiscono. È la vita. Che insegna e fa crescere, che fa scoprire e mette alla prova. Ma «l’amore vero non picchia, non uccide» come ha detto il padre della giovane accoltellata venti volte da quello che doveva essere il suo fidanzato e in realtà è diventato il suo carnefice. Maschi così oltre al carcere dovrebbero stare sotto una lente di ingrandimento per capirne i tratti di una malattia intollerabile a una società che ha da poco scavallato un altro millennio. Una società che va indietro se permette a certi suoi interpreti di massacrare una parola e con essa le donne rinchiuse in assurdi confini di possesso. Quelle donne, morte se da quei confini provano a scappare. La prigione è il palliativo di un cancro che ha bisogno di prevenzione più forte della cura. Qui si chiama, prima di tutto, educazione. Sentimentale, se volete: da insegnare a scuola, in famiglia, in ogni dove, in ogni gesto, in ogni momento. Perché amore e amare dovrebbero essere anagrammi di rispetto e libertà. Solo così si potrà scolpire nella pietra il verso di una poesia che i social gridano ovunque: «Se domani tocca a me voglio essere l’ultima».
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