Ci risiamo. Sette mesi fa c’era la primavera, fuori. Ora c’è l’autunno, e come allora rischiamo di non poterne godere. E’ vero, a fine marzo non si poteva uscire, adesso si può, ma quello che manca è l’animo, la voglia di trarre beneficio da questa fuggevole, ma intensa esplosione di colori e di natura in trasformazione.
Non facciamoci mancare anche questo. Torniamo ad abbracciare gli alberi, ad esempio. L’avevo scritto allora, l’abbiamo fatto in tanti e abbiamo continuato a farlo.
Faggi, cedri e sequoie
La mia ricerca clandestina della scorsa primavera ha portato alla conoscenza di tanti alberi monumentali dei quali ignoravo l’esistenza. Ne segnalo alcuni, andate a vederli con il vestito di fine ottobre, la passeggiata vi farà bene. A Piaro, in alta valle del Cervo, c’è uno stupendo faggio appena fuori dalle case, sulla mulattiera che scende verso Campiglia; a Cerreto Castello ci sono tre magnifici cedri a valle del muro che delimita le ville dei De Lachenal. Ma i cedri più belli del Biellese sono più facilmente visibili al Giardini Zumaglini di Biella, senza dimenticare quello alle spalle della Villa al Piazzo di Pettinengo. Nello stesso parco avevo già segnalato la sequoia, sicuramente tra le più grandi del Piemonte, come dice Tiziano Fratus. Oltre nove metri di circonferenza, ad altezza d’uomo. Altre sequoie famose sono in Burcina, ma meno imponenti di quella di Chiavazza, sulla strada antica per Ronco Biellese, che misura più di otto metri.
L’ippocastano del Mot
Tante belle querce li potete vedere in Baraggia ma quella di Villa del Bosco, dove abbiamo fatto arrivare apposta il percorso di Salute in Cammino, è davvero spettacolare. Una grande chioma di ippocastano si faceva ammirare quest’estate dalla Panoramica Zegna, in basso nel vallone della Poala. Di solito questi alberi venivano messi a dimora davanti alle cascine, come segno distintivo della proprietà, ma anche per i benefici dei semi, che opportunamente trattati sono rimedi naturali contro vene varicose, cellulite ed emorroidi. Il frutto invece è tossico per l’uomo, ma, secondo la tradizione popolare, tenere in tasca una “castagna matta” porterebbe fortuna e aiuterebbe a combattere raffreddori e mal di gola.
Allora siamo andati a cercare quel grande ippocastano partendo dalla Zerbola di Veglio e l’abbiamo trovato davanti alla Cascina Mot, da tempo non più utilizzata. Non è stato semplice, i sentieri si sono persi e il pascolo è ormai completamente boscato. Ma l’albero è ancora lì, ad aspettarci maestoso.
L’arbo
In ogni caso, l’albero giusto dell’autunno biellese è il castagno. Anzi, è “l’arbo”, per definizione.
E qui i monumenti da visitare sono molti, a cominciare dal castagno secolare di Bioglio, all’interno del parco dell’ex Villa Sella, davanti alla sede della Comunità il Punto. Si calcola che abbia più di trecento anni, ancora ben portati. Altri esemplari famosi sono a Sostegno, vicino alla chiesa parrocchiale, poi ancora a Villa del Bosco, presso il cimitero, e alla Brughiera di Trivero, a pochi passi dal parcheggio. Quest’ultimo è probabilmente la ricrescita in ceduo di un preesistente ed enorme castagno, ma l’insieme è spettacolare.
Mio nipote Riccardo, che di mestiere costruisce case sugli alberi (ma con grande attenzione a non offenderli), è andato fino alla sperduta Alpe Celf in alta Valsessera a cercare il castagno che il DocBi aveva adottato più di trent’anni fa. L’ha trovato, non è stato facile, con i suoi 8 metri di circonferenza sta benone in quel posto, dove vede più lupi che umani.
Merce di scambio
Si può dire che del castagno, un tempo, non si buttava via niente, come per il maiale. Oltre ai frutti, il castagno dava legname da costruzione, in particolare per le travature dei tetti, per i pavimenti e per le porte, e anche per mobili semplici, come le cassapanche. Il fogliame serviva per le lettiere degli animali e dalla corteccia si otteneva il tannino, usato per la tintura della lana e per la concia delle pelli.
Le popolazioni montane ricavavano grandi quantità di prodotti, indispensabili nell’economia di allora. La produzione delle castagne andava in molti casi oltre al fabbisogno famigliare ed era possibile destinare diversi sacchi alla vendita o allo scambio. Vi erano mercanti che salivano dalla bassa vercellese per acquistare le castagne oppure per scambiarle con riso, meliga o vino. Ma poteva succedere anche il contrario, con famiglie nostrane che scendevano in pianura con le gerle cariche di castagne affumicate per venderle ad un prezzo migliore o per barattarle con i prodotti locali.
Le castagne dei Santi
Si torna a vedere gente che raccoglie le castagne nei boschi. E’ un buon segno, se fatto col giudizio di sapere che quei frutti non verranno raccolti dal legittimo proprietario. Un tempo vi era un rispetto assoluto della proprietà e nessuno raccoglieva le castagne se non sotto i propri alberi.
Mina e Giovanni Vachino, nel loro prezioso quaderno del 1982 sulla “civiltà del castagno”, raccontano che l’incertezza di alcuni confini e la contrastata proprietà di un solo albero, poteva causare litigi che si portavano avanti per generazioni. La tradizione voleva che dopo i Santi le castagne non raccolte divenissero di proprietà comune. Tuttavia, di solito dopo tale data non rimaneva molto da raccogliere.
Mi piace ricordare una antica tradizione, quella delle froe, le castagne lessate, messe in un piatto sul tavolo della cucina, accanto ad una bottiglia di vino e una candela accesa. Si lasciavano per tutta la notte che precede il giorno dei morti, affinché i cari defunti trovassero quanto serviva per sfamarsi e dissetarsi.
Nuova vita al bosco
Qualcosa sta cambiando. Lungo la mia passeggiata preferita, da casa alla Brughiera di Trivero, poco prima del Santuario si trova un castagneto ben curato. E’ quello della locanda agricola Gribaud, recintato da una semplice fettuccia bianca. Alcuni cartelli, scritti a mano con carattere gentile, invitano a raccogliere solo le castagne lungo il sentiero. Non è una questione di rispetto della proprietà privata, ma piuttosto l’invito a salvaguardare il raccolto che poi potrete trovare, opportunamente trasformato, alla locanda stessa. Assieme ad altri prodotti locali, a cominciare dal profumato miele.
Miriam e Mirko, i due giovani proprietari, hanno avuto molto coraggio a riaprire quest’anno l’antica locanda dei nonni. Hanno dovuto lavorare e stanno lavorando molto nel castagneto, prima per tenerlo pulito e per contenere i roveti, poi per la raccolta dei frutti.
In una cascina al centro del bosco allevano galline e altri animali ed è molto piacevole percorrere quel tratto di sentiero che ha ripreso vita.
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