Vi racconto la mia Pasqua, così come l’ho vissuta. A Oropa sono arrivato a piedi decine di volte, da tutte le vie possibili. Che sono otto, come le punte del suo simbolo, fatto a stella. Stavolta ci sono arrivato in auto, a causa di una fastidiosa tendinite al piede destro che da qualche giorno mi impedisce di camminare come vorrei. E allora, complice la moglie come autista, ho fatto la strada per Oropa guardandomi attorno, come faccio di solito camminando, testa alta e fotocamera accesa.
Il “volo” di Pantani
Arrivando da Pralungo e svoltando a destra in salita, la prima cosa che noto è un affresco della Vergine Nera su di un vecchio edificio industriale. Non ha la stessa età, ma quasi, l’immancabile e geniale cartello della trattoria che poco dopo mi informa del menu del giorno: oggi polenta e cervo. Mi chiedo cosa ci sarà domani, ma credo di sapere la risposta.
Al bivio per il Favaro si va a destra. La strada “nuova” a sinistra è eterna e non esiste proprio… Poi da questa parte ci sono i cartelli della “montagna Pantani” con le pendenze chilometro per chilometro e le storie del Giro d’Italia. Io c’ero il 30 maggio del 1999, quando il Pirata dovette fermarsi dopo il Bottalino per un salto di catena e poi, nero di rabbia, superò uno dopo l’altro i cinquanta avversari che lo precedevano, arrivando solo e davanti a tutti al Santuario, ma senza esultare. Non sapeva di essere primo, non c’era stato modo di avvertirlo.
Il Trasporto e l’emozione
Alla Cascina Noce i mirtilli sono già fioriti e ai Tre Ponti hanno tagliato gli alberi sopra e sotto il percorso della tramvia, ancor più bello da fare a piedi. Sulla salita della Vecchia mi fa tristezza l’ex hotel Miravalle, speriamo non faccia la fine di Oropa Bagni
Rieccolo Pantani, ero proprio qui quel giorno, quando quella maglia gialla della Mercatone Uno aveva messo la freccia. Era così avanti, alto sulla sella, che la bici pareva far fatica a stargli dietro.
Dopo la Cappella di San Fermo la strada spiana in quel meraviglioso filare di faggi, poi riprende vigore nell’ultimo miglio. Alla Cappella del Trasporto viene in mente che - qui come nel monastero spagnolo di Monserrat - la statua della Madonna diventò pesantissima e si dovette riportare indietro. All’ultima curva, prima del Prato delle Oche, non viene mai a mancare l’emozione alla vista del Santuario, dove la monumentalità degli edifici gioca ad integrarsi con la maestosità delle montagne.
Transumanze marmoree
Sono le dieci del mattino, i parcheggi si stanno riempiendo e nel grande tabellone pubblicitario delle Funivie, alla partenza della strada del Tracciolino, c’è sempre la foto di mio nipote Riccardo, allora ragazzino in arrampicata sulla ferrata del Pilone. Mi faccio portare all’entrata del chiostro per non affaticare il piede sullo scalone della Porta Regia. Le candele votive sono disposte e utilizzabili nel grande portone d’ingresso; nella saletta dove c’era stato l’incendio nel giugno 2019 ora c’è un bellissimo video dell’Incoronazione del 29 agosto 2021.
Davanti alla Basilica Antica mi fermo a fotografare i candidi fregi di marmo che ornano la facciata, sopra il portale. Con l’aiuto di alcuni amici, sto conducendo una ricerca sulle opere realizzate con il pregiato marmo del Mazzucco, una cava situata nella valsesiana val Sorba, sopra Rassa. Anche il marmo di queste sculture - come le acquasantiere a San Giovanni d’Andorno – arriva da quella cava con un percorso tra le nostre montagne, in una sorta di transumanza d’arte.
La croce patente
Per la Santa Messa delle 10,30 la basilica antica è strapiena, i volontari della Confraternita e lo stesso rettore don Berchi si danno da fare per accomodare i presenti, mentre l’organo e i canti riempiono la chiesa. Come tutte le volte che mi trovo nei siti di interesse storico e monumentale, mi perdo ad osservare i particolari artistici e architettonici, anche minimali, nella speranza di trovare qualcosa di inedito o a me sconosciuto. Ad Oropa ci sono alcune tavolette ex voto che raccontano storie straordinarie, come i massi scolpiti di granito nei dintorni della Basilica Nuova, risultanze della sua costruzione, mezze colonne e capitelli che mi fanno tornare in mente le rovine greche o romane.
Se osservate la Via Crucis all’interno della Basilica antica, vi accorgerete di un simbolo tondo che accompagna tutte le stazioni e che - per me - è sempre apparso come un fiore o un quadrifoglio bianco. In realtà è una croce che risulta dal disegno scuro, una particolare forma di croce a bracci uguali le cui doppie punte si espandono verso l’esterno, quasi a chiudersi a formare un ovale a petalo. Si chiama “croce patente” ed era in uso ai cavalieri templari, ma per me rimane un quadrifoglio chiaro. Me ne farò una ragione.
Frammenti di vita
Al termine del rito, è normale vedere quanta gente passa e si sofferma davanti al sacello della Madonna Nera. Ma se un tempo era consueta una preghiera sottovoce e un segno di croce, ora è curioso assistere all’alzarsi dei cellulari per scattare una foto. Mi vien da pensare, sarà la moda d’oggi, dove tutto passa attraverso l’immagine da condividere il più possibile.
Ed è proprio così, è una questione di moda, mi perdoni la nostra Madonna. È lei a essere elegantissima e moderna con il suo nuovo manto, e con la doppia corona d’oro che la slancia ancora di più. Uno strascico regale e nuziale che attraversa idealmente il muro del sacello e continua in alto nella cappella posteriore, dove è pieno di persone che cercano il loro frammento di vita, tra le quindicimila tesserine che formano il Manto della Misericordia. Ognuna con un racconto personale, che può essere una testimonianza di fede o di amore, come nei ritagli di abiti da sposa, ma anche il ricordo di una sofferenza grande, come nel frammento di un vestito di qualcuno che non c’è più.
Un tessuto di storie
Il Manto della Misericordia che veste da quasi un anno la Vergine Nera è frutto di un’opera tessile collettiva nata da una formidabile intuizione di Alessandra Alberto, che di mestiere è direttore creativo in una azienda tessile biellese. Quando l’iniziativa è stata lanciata, nel 2018, si pensava di ricevere duemila pezzi di stoffa da unire per formare il manto. Quando questo numero si è decuplicato, a fine 2019, le suore di clausura dell’Abbazia Mater Ecclesiae all’isola di San Giulio di Orta, alle quali era stato richiesto il lavoro, si sono trovate in difficoltà. Ma grazie all’aiuto di altre sarte biellesi e a oltre ventimila ore di lavoro in totale, si è riusciti a portare a termine la straordinaria opera lunga 25 metri, ora visibile a tutti.
Si possono usare tante parole in proposito: rigenerazione, partecipazione, inclusività, circolarità, ma credo che le più semplici e giuste parlino di un manto fatto di tante storie e di altrettante preghiere.
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